lunedì 6 gennaio 2014

Gli ingredienti di una buona omelia

Durante questo periodo del S. Natale ho finito di leggere la Evangelii gaudium , l’Esortazione apostolica pubblicata il 24 novembre scorso, con la quale papa Francesco sviluppa il tema dell’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Il Pontefice raccoglie il contributo dei lavori del Sinodo che si è svolto in Vaticano dal 7 al 28 ottobre 2012 sul tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede”, ma non si ferma ad esso, come spiega al n. 16, perché - e questa rappresenta una novità - " queste molteplici questioni che devono essere oggetto di studio e di attento approfondimento. Non credo neppure che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”.

Da ciò, quindi, il carattere peculiare di questa Esortazione che pertanto non si definisce “postsinodale”. Francesco precisa, tuttavia, al n. 17 i temi su cui si sofferma e tra questi mi piace qui riprendere intanto quello dell’omelia (cfr. nn. 135-159). E’ interessante, con lo stile dialogico che caratterizza questo documento, che a sua volta rispetta in pieno la cifra verbale di papa Bergoglio, rilevare il punto di partenza da cui procede il Santo Padre e cioè: “molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie”.

Egli ricorda l’insegnamento di un suo vecchio maestro, secondo cui una buona omelia deve contenere “un’idea, un sentimento, un’immagine”. Il Papa, nel ribadire che l'omelia “ non è tanto un momento di meditazione e di catechesi e neppure “ uno spettacolo di intrattenimento” né “risponde alla logica delle risorse mediatiche”, ma trattandosi “di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica… deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione”. A questo proposito, il Pontefice ammonisce: “Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo”. Ma papa Francesco va oltre, evocando l’ambito materno-ecclesiale in cui si sviluppa il dialogo del Signore con il suo popolo, che “si deve favorire e coltivare mediante la vicinanza cordiale del predicatore, il calore del suo tono di voce, la mansuetudine dello stile delle sue frasi, la gioia dei suoi gesti”. 

Al di là di queste considerazioni comunque, ho trovato estremamente interessante quanto il Papa insegna ai nn. 149-159 circa le modalità di approccio che il predicatore deve adottare per un’efficace proclamazione della Parola, a partire dalla “grande familiarità personale con la Parola di Dio” intesa non solo in senso intellettuale alla luce di quanto sta scritto: "la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda (Mt 12,34)”. Il tutto perché “Il Signore vuole utilizzarci come esseri vivi, liberi e creativi, che si lasciano penetrare dalla sua Parola prima di trasmetterla; il suo messaggio deve passare realmente attraverso il predicatore, ma non solo attraverso la ragione, ma prendendo possesso di tutto il suo essere”.

E ancora. “Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo…Si tratta di collegare il messaggio del testo biblico con una situazione umana, con qualcosa che essi vivono, con un’esperienza che ha bisogno della luce della Parola. Questa preoccupazione non risponde a un atteggiamento opportunista o diplomatico, ma è profondamente religiosa e pastorale… Dunque, la preparazione della predicazione si trasforma in un esercizio di discernimento evangelico, nel quale si cerca di riconoscere – alla luce dello Spirito – quell’ «“appello”, che Dio fa risuonare nella stessa situazione storica: anche in essa e attraverso di essa Dio chiama il credente”.

Il Papa insiste sul linguaggio da utilizzare, auspicando che venga privilegiato quello con immagini, che “aiutano ad apprezzare ed accettare il messaggio che si vuole trasmettere”, nel segno della semplicità, affinché sia comprensibile dai destinatari “per non correre il rischio di parlare a vuoto”. Per evitare quest’ultimo rischio, il Papa dice: “si deve ascoltare molto, bisogna condividere la vita della gente e prestarvi volentieri attenzione…Pertanto un altro compito necessario è fare in modo che la predicazione abbia unità tematica, un ordine chiaro e connessione tra le frasi, in modo che le persone possano seguire facilmente il predicatore e cogliere la logica di quello che dice”.

E da ultimo viene ripresa la positività del linguaggio, per cui il predicatore “Non dice tanto quello che non si deve fare ma piuttosto propone quello che possiamo fare meglio. In ogni caso, se indica qualcosa di negativo, cerca sempre di mostrare anche un valore positivo che attragga, per non fermarsi alla lagnanza, al lamento, alla critica o al rimorso. Inoltre, una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività.

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