“Un vecchio non deve far dire di sé: senescit et se nescit, ossia che invecchia e non impara a conoscersi”.
Così il card. Gianfranco Ravasi ha introdotto il proprio quotidiano “Mattutino” di qualche giorno fa su Avvenire. Tratta della vecchiaia o meglio del modo come si vive quella che fino a qualche tempo si indicava come terza età e ormai, con l'aumento di aspettativa di vita, è definita quarta fase dell'esistenza. Un tema per me, vista l'anagrafe, intrigante che mi spinge ad una riflessione sul senso e sull'uso del tempo che scorre.
Al riguardo, il card. Ravasi scrive, riprendendo Alphonse Karr, vissuto nell'Ottocento: “Se, infatti, spezziamo il verbo senescit, che è l'«invecchiare» normale, scandito dal flusso del tempo, ci troviamo di fronte a un se nescit, che è invece il verbo dell'ignoranza. Certo, gli anni portano con sé anche l'appannamento mentale e la debolezza generale dell'organismo, ma c'è un patrimonio che non dev'essere disperso, quello appunto della sapienza, «distillata» passando oltre le tempeste della vita, persino attraverso gli errori ma soprattutto nella ricerca e nell'esperienza di anni”.
Sapienza distillata con il salmista (Sal 89/90) , che canta al Signore "Ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato" e quindi invoca "Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore".
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