lunedì 29 aprile 2013

In calce ad un governo di servizio al Paese

Mentre è in corso alla Camera dei Deputati il dibattito sulla fiducia al governo Letta e imperversa la solita corsa agli spazi televisivi per cercare visibilità, condita da cinismo fondato sul nulla, s’impone qualche considerazione. Intanto, possiamo dire: finalmente c’è un governo. E non un governo qualsiasi ma l’unico possibile e con una sua base politica nonostante la sua costituzione derivi da un accordo tra forze eterogenee che rimangono strategicamente alternative. Un incontro tra queste e non altre di quelle presenti in Parlamento, perché solo queste si sono dette disponibili ad assumersi responsabilità per far fronte alla difficile situazione socio-economica che attraversa il Paese. Un incontro che fino adesso era precluso dall’impossibilità di ogni accordo tra Silvio Berlusconi e il centrosinistra senza il rischio di essere tacciato di “inciucio” ovvero di “tradimento” dai “puristi” di destra e sinistra con l’amplificazione dei rispettivi organi di informazione (giornali e siti web). A dire il vero, poiché nessuno è nato ieri e meno che mai chi scrive, fino ad oggi ci siamo potuti permettere questo lusso dialettico in nome di sbandierate buone ragioni, fino a quando cioè non si sono rese indifferibili quelle riforme necessarie, in economia e nelle istituzioni, per far fronte in particolare alla crisi che ha spazzato via tutto un modo di produrre e lavorare. Proprio per amore della verità bisogna riconoscere che le colpe dei ritardi vanno ascritte si alla colpevole politica fin qui fatta, ma vanno estese alla classe dirigente italiana tutta e quindi anche a imprenditori, media, cultura e sindacato.

 Con il suo discorso  al Parlamento nel giorno del giuramento per il tanto auspicato secondo incarico, il presidente Napolitano ha direttamente messo sotto accusa la divisione manichea su cui si era avvitata certa politica, refrattaria a prendere doveroso atto della realtà determinata dal risultato elettorale del febbraio scorso. 
Il presidente della Repubblica è stato chiaro nel richiamare alla memoria la situazione di fatto: “Sulla base dei risultati elettorali - di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no - non c'è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto - se si preferisce questa espressione - si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale…l fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell'idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione - fino allo smarrimento dell'idea stessa di convivenza civile - come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti.Lo dicevo già sette anni fa in quest'aula, nella medesima occasione di oggi, auspicando che fosse finalmente vicino "il tempo della maturità per la democrazia dell'alternanza" : che significa anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise quando se ne imponga la necessità”.

Per questo motivo il capo dello Stato ha richiamato tutti, compreso Beppe Grillo e il suo M5S, a una collaborazione pur temporanea. Davanti al «no» di Grillo non restava che l’intesa Pd-Pdl- Scelta Civica. 

Venendo al dettaglio, il carattere politico dell’Esecutivo, presieduto da Enrico Letta, vede solo tre “tecnici” su 21 ministri. Nove i "politici" in quota Pd, mentre dal centrodestra ne arrivano cinque. Tre le personalità indicate da Scelta civica, oltre alla radicale Emma Bonino. Vi è poi un "record di presenza femminile" basato su un terzo del totale della compagine ministeriale he vede appunto sette donne. E ancora altra novità di spessore, al di là di certi schiamazzi leghisti, si segnala la presenza del primo ministro di colore della storia repubblicana: Cecile Kyenge, deputato del Pd, a cui è stato assegnato il ministero senza portafoglio dell'Integrazione. 

Già si conosce il programma di questo Governo, che ha preso un impegno fondamentale. Andare oltre l’agenda Monti, dedicandosi prevalentemente alla fatica di propiziare la “risalita”. 

Purtroppo ieri, proprio mentre i Ministri giuravano davanti al presidente Napolitano, i sampietrini davanti a Palazzo Chigi si sono intrisi del sangue del brigadiere dei carabinieri Giuseppe Giangrande, gravemente ferito insieme ad un altro militare da un attentatore, avendo solo la colpa di difendere la nostra libertà di cittadini. Mi unisco a quanti richiamano tutti e ciascuno a dare l’unica risposta pronta e duratura di fronte ad episodi del genere:fare insieme, ogni giorno, come Giangrande, il nostro dovere.

sabato 20 aprile 2013

La carica dei 101

101 e viene in mente il famoso film Disney, aiutati in questo anche dalla foto sul web che vede D'Alema a passeggio con il suo cane (naturalmente di razza). 

Ma 101, ahinoi, indica il numero dei “traditori”, come li ha definiti Bersani, del Pd che ieri hanno affondato la candidatura di Prodi al Quirinale. Dopo che l’avevano platealmente approvata all’unanimità nell’ assemblea dei grandi elettori del centro sinistra. 

Ma al di là degli appellativi con cui qualificare tali signori – si fa per dire- è certo che si rimane in balia di irresponsabili pagati dal contribuente. Una situazione quella verificatasi in sede di elezione del presidente della Repubblica, frutto di una sorta di cupio dissolvi, a sua volta effetto di una mancanza di vera leadership, rivelatasi al contrario mediocre e senza una qualche coerente corrente di pensiero. 

Bersani, è il caso di dirlo, in tre mesi dalle “vittoriose” primarie in poi, si è giocato e ha perso tutto: non ha vinto di fatto le elezioni, non ha potuto eleggere al vertice delle Camere propri rappresentati diretti, non è andato al governo, non è riuscito nemmeno a indicare e meno che mai a farlo eleggere il presidente della Repubblica. Ancora una volta il Pd siffatto si è dimostrato, per dirla con qualcuno, un elefante cieco guidato per la proboscide dall’interessato di turno. 

Dopo la tardiva decisione del segretario di annunciare le proprie dimissioni (preceduto dalla Bindi), il Pd rimane un partito non solo senza guida, ma alla mercé di correnti in guerra tra loro e che per i loro scopi usano anche l’elezione del presidente della Repubblica per contarsi e contare. Basta vedere i diversi modi di scrivere il nome del candidato sulla scheda : solo il cognome, anche il nome per intero o con l’iniziale puntata, messa prima o dopo. Con buona pace del bene del Paese. 

Il tutto con un danno d’immagine dell’Italia sul piano internazionale. E’ l’amara e triste conferma (per i tanti che ci abbiamo investito idealmente) dell’amalgama mal riuscito ovvero della fusione a freddo delle diverse componenti che sono confluite nel Pd e che verosimilmente si sono portate dietro fratture non ricomposte dall’antiberlusconismo o dall’inseguimento di radicalismi di maniera. 

Ma bisogna guardare avanti a partire dal presidente della Repubblica, il quale – non lo si dimentichi- deve rappresentare e realizzare l’unità nazionale, così come ha dimostrato sul campo, giorno dopo giorno, Giorgio Napolitano. Il che non vuol dire in partenza uno che piaccia a tutti, ma uno che sappia fare quel mestiere per competenza istituzionale e politica, sul piano nazionale e internazionale. Ecco perché, alla luce dei fatti fin qui vissuti, sarebbe auspicabile un ripensamento dello stesso presidente Napolitano.

domenica 14 aprile 2013

Volontà di sinodalità

“Il Santo Padre Francesco, riprendendo un suggerimento emerso nel corso delle congregazioni generali precedenti il conclave, ha costituito un gruppo di cardinali per consigliarlo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia romana”. 
La notizia su L’Osservatore Romano, che riporta un comunicato della Segreteria di Stato vaticana. A 30 giorni dalla sua elezione al soglio di San Pietro, papa Francesco ha voluto mandare un altro preciso segnale del suo pontificato: la questione della riorganizzazione del governo centrale della Chiesa cattolica è tutt'altro che accantonata, la scelta della collegialità non è solo parole, ma si estrinseca con una volontà sinodale.

I nomi dei porporati scelti sono significativi, sia per provenienza (comprendendo i cinque continenti), che per sensibilità all’interno del Sacro Collegio. 
I Cardinali che consiglieranno il Papa sono : Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano; Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo emerito di Santiago del Cile; Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, in India; Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera; Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa, in Congo; Sean O’Malley, arcivescovo di Boston; George Pell, arcivescovo di Sydney; e Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa, in Honduras. Sarà proprio quest'ultimo, latinoamericano come papa Bergoglio, a coordinare i lavori del gruppo, mentre il vescovo di Albano, Marcello Semeraro, avrà la funzione di segretario. 

La prima riunione collettiva del gruppo è stata fissata per i giorni 1-3 ottobre 2013. Papa Francesco è già in contatto con i Cardinali scelti, mentre prosegue il suo lavoro di conoscenza della Curia attraverso le consuete udienze con i prefetti delle Congregazioni e dei diversi dicasteri. 

A proposito della Curia Romana, la cui attuale origine si fa risalire al 1588 e alla Costituzione Immensa aeterni Dei  di Sisto V, se ne ricorda la struttura secondo quanto previsto dal  Codice di diritto canonico: “La Curia Romana, mediante la quale il Sommo Pontefice è solito trattare le questioni della Chiesa universale, e che in suo nome e con la sua autorità adempie alla propria funzione per il bene e a servizio delle Chiese, è composta dalla Segreteria di Stato o Papale, dal Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, dalle Congregazioni, dai Tribunali, e da altri organismi; la loro costituzione e competenza vengono definite da una legge peculiare”. 

E proprio con riferimento alla legge peculiare, nel 1908 san Pio X con la Sapienti Consilio adeguò le strutture dopo la fine del potere temporale sopraggiunta nel 1870. Ancora Paolo VI nel 1967 intervenne con la Regimini Ecclesiae Universae per conformare la Curia alle disposizioni del Vaticano II e in particolare aprirla ad una maggiore collegialità, anche se di fatto finì per accrescere il potere di coordinamento della Segreteria di Stato. E così pure la Pastor Bonus del beato Giovanni Paolo II del 1988.

domenica 7 aprile 2013

La beatitudine della fede

Al Regina Coeli  di questa II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, Papa Francesco si è rivolto alle migliaia di fedeli assiepati in Piazza S. Pietro con le parole di Gesù Risorto “Pace a voi!” (Gv 20,19.21.26), aggiungendo: “Non è un saluto, e nemmeno un semplice augurio: è un dono, anzi, il dono prezioso che Cristo offre ai suoi discepoli dopo essere passato attraverso la morte e gli inferi”. 

Il Papa, proseguendo la catechesi sulla Misericordia divina, ha richiamato l’odierno brano del Vangelo e in particolare l’episodio dell’apostolo Tommaso (Gv 20, 19-31) ed  ha parlato della “beatitudine della fede”. Egli ha quindi spiegato il senso di questa definizione magisteriale: “...
chi erano questi che avevano creduto senza vedere? Altri discepoli, altri uomini e donne di Gerusalemme che, pur non avendo incontrato Gesù risorto, credettero sulla testimonianza degli Apostoli e delle donne. Questa è una parola molto importante sulla fede, possiamo chiamarla la beatitudine della fede. Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto: questa è la beatitudine della fede!In ogni tempo e in ogni luogo sono beati coloro che, attraverso la Parola di Dio, proclamata nella Chiesa e testimoniata dai cristiani, credono che Gesù Cristo è l’amore di Dio incarnato, la Misericordia incarnata. E questo vale per ciascuno di noi!”.