Dopo 45 anni dalla sua introduzione nel nostro ordinamento civile (Legge I° dicembre 1970 n. 898, detta “Baslini-Fortuna) è arrivato il cosiddetto divorzio breve, con l’approvazione in via definitiva della Camera dei Deputati, dopo che il Senato aveva apportato modifiche al relativo disegno di legge.
Le cronache ci dicono che il provvedimento ha visto favorevoli 398 deputati, contrari 30 e 14 astenuti. Una legge, dunque, che nasce con un’ampia maggioranza trasversale che va oltre quella governativa e che consta di soli tre articoli.
Premesso che la nuova legge si applica anche ai procedimenti in corso, saranno necessari, in caso di controversia tra i coniugi, dodici mesi fra la separazione (ossia dalla comparsa dei coniugi davanti al presidente del tribunale) e la richiesta per ottenere il divorzio, rispetto ai tre anni finora previsti; mentre bastano sei mesi nel caso di separazione consensuale. Viene altresì anticipato il momento dello scioglimento della comunione dei beni tra i coniugi all’atto in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati.
Per la verità non si tratta di una prima modifica alla legge sul divorzio. Intanto, i meno giovani, come chi scrive, ricordano l’epoca referendaria sul divorzio del 1974, in cui l’87 per cento degli italiani andarono a votare e i “no” ottennero il 59,30 per cento, i “sì” il 40,7. Successivamente , in particolare con la L. 74/1987 si ridussero i tempi necessari per arrivare alla sentenza definitiva.
A margine di questo traguardo parlamentare, tuttavia, s’impongono alcune considerazioni, che guardano alle premesse sociali dello stesso provvedimento. Dal film del ’61 “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi ad oggi tanta acqua è passata anche sotto i ponti del bel paese. Il tempo in cui l’adulterio era un reato, con l’aggravante se commesso da una donna, per cui c’era l’attenuante per il delitto d’onore, così come la violenza carnale poteva essere “emendata” se il reo si impegnava a sposare la vittima.
E allora, se è vero come è vero, che le leggi, frutto di scelte politiche, servono a regolare fenomeni che sono già presenti nella società, non possiamo non rilevare che la maggioranza degli italiani, in linea con l’occidente, abbia una visione del matrimonio per così dire contrattualistica che si può fare e disfare secondo il proprio volere.
Per dirla con Michele Brambilla
, insomma,
"Ad esempio l’idea che c’è pure una bellezza nello stare insieme nonostante le difficoltà che la vita inevitabilmente presenta. L’idea dunque che fare una famiglia è anche - pure qui l’anche è sottolineato - una storia di fatica, di sacrifici da compiere, di gesti e parole da perdonare, di rinunce, perfino di sopportazioni. Non è questione di chiedere l’eroismo. È questione di discernere fra il matrimonio-martirio, che nessuno vuole, e il matrimonio banalizzato, il matrimonio che si sta insieme finché si prova quello che si prova nei romanzi di Moccia, in un’eterna adolescenza. Chiunque si innamora prova il desiderio che quel che sta provando non finisca mai: e certo non si può esigere l’eternità dell’amore per legge, ma il «ti amo» dei tempi nostri, cioè a tempo determinato, magari a tutele crescenti, beh insomma, forse un po’ di fascino l’ha perso. Non si vuole ovviamente giudicare nessuno, solo constatare che oggi molto spesso ci si lascia alla prima difficoltà. Il divorzio breve, se giudicato in superficie, è certamente una legge utile, che semplifica molte situazioni che altrimenti si trascinerebbero per anni, con il loro codazzo di rancori. Se guardato un po’ più in profondità, è invece anche la spia di come siamo cambiati di fronte appunto a termini come fatica, sacrificio, rinunce, perdono, responsabilità, fedeltà a un impegno preso e a una parola data. Tutte cose che abbiamo smarrito non solo riguardo al matrimonio".
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